La figlia del generale è un film del 1999 diretto da Simon West, tratto dall’omonimo romanzo del 1992 di Nelson DeMille. Paul Brenner, veterano della guerra del Vietnam e sottufficiale della divisione investigativa criminale dell’esercito, viene incaricato da William Kent, suo amico e colonnello della polizia militare, di investigare su di un traffico di armi nella base di Fort MacCallum in Georgia. Contemporaneamente all’interno della base, viene scoperto il cadavere del capitano Elizabeth Campbell, docente di guerra psicologica e figlia del generale Joseph Campbell, prossimo alla pensione e in corsa per la carica di vicepresidente degli Stati Uniti. Al protagonista viene affidato il compito di investigare sul delitto di Elizabeth e ad affiancarlo nelle indagini vi è la collega ed ex amante Sarah Sunhill, psicologa dell’esercito specializzata in casi di violenza sessuale.
L’ambiente che regola tutta la vicenda è quello militare. Un ambiente rigido, regolato da ritmi e norme molto ferree, in cui ci si deve attenere all’ordine e alla disciplina. Istituzione che prevede un’uniforme, che definisce ruolo e prestigio sociale e che si sostituisce almeno a primo impatto all’identità della persona. Ed è proprio sulla divisa e sull’identità che Paul gioca, usando in base alla circostanza l’identità di agente di polizia o di militare. Indossa e rimuove maschere a piacimento, esattamente come accade nella realtà. In base all’ambiente e al tipo di persone con cui ci interfacciamo vestiamo identità differenti, accentuando o inibendo alcune caratteristiche personali. Ciò è un fenomeno naturale, non per forza connotato da caratteristiche negative o opportunistiche. Pirandello nel suo romanzo “Uno, nessuno e centomila” tratta appunto il tema della maschera, come mezzo per celare la propria personalità ed usarne alcuni tratti in base alla circostanza.
Il personaggio di Elizabeth merita qualche riga. Donna dall’ordine quasi maniacale che ha bisogno di avere ogni aspetto della sua vita sotto controllo. La perdita di controllo può portare l’individuo a un forte stato di ansia e disagio. Il bisogno di tenere tutto sotto controllo può essere generato da eventi traumatici o di grande vergogna vissuti nel passato. L’individuo, al fine di evitare la sofferenza che è derivata dall’evento, si prodiga affinchè nessun aspetto della realtà possa essere al di là del suo sguardo e del suo potere di cambiamento. Gli eventi traumatici non elaborati lasciano una traccia all’interno dell’individuo, che può sviluppare comportamenti e sintomi che risentono di essi. Elizabeth cresce in un clima militare, freddo, nasce del sesso sbagliato e per dimostrare il suo valore ha bisogno di impegno e sforzi molto più grandi rispetto ai suoi compagni di sesso maschile. Cerca di farsi notare dal padre, anche seguendo le sue orme in campo lavorativo, fallendo tuttavia nell’intento. Joseph Campbell appare come un padre rigido e distaccato che non si è occupato della figlia ma ha messo l’esercito al primo posto, anche a livello familiare. Capita che nelle famiglie ci siano coniugi che deleghino all’altro il compito di educare e crescere i figli, stipulando indirettamente veri e propri patti che prevedono compiti e doveri ben precisi. A causa del lavoro o di altri motivi si delega all’altro il proprio dovere genitoriale, dedicandosi più o meno esclusivamente al mantenimento economico.
Interessante spunto che il film offre è quello del “tirare la corda”, ossia quella dinamica che vede una parte più debole (il figlio) che presenta una richiesta e una parte più forte (il genitore) che deve accettare o rifiutare tale richiesta. Nel caso specifico Elizabeth cerca disperatamente di attirare l’attenzione del padre mettendo in atto dinamiche sempre più dimostrative. L’impegno messo per ricercare l’approvazione del padre non porta ad alcun risultato, con la conseguenza di esasperare la ragazza che pur di ottenere l’attenzione del genitore opta per una condotta sessuale inappropriata. Elizabeth cerca di testare i limiti con gesti sempre più incisivi, tuttavia il padre non mettendosi mai in discussione finisce per rendere vana qualsiasi sua azione. Il tirare la corda è un meccanismo che, se utilizzato in modo appropriato e costruttivo, diventa altamente funzionale. È quello che accade ad esempio nel normale processo di individualizzazione e distacco dal genitore nell’adolescente, che attraverso tentativi, assensi e rifiuti tasta i limiti, plasmandosi e individuandosi; riesce quindi a definirsi trovando una sua identità. Meccanismo funzionale perchè l’adolescente impara a combattere per ottenere un determinato risultato e al tempo stesso individua i limiti, riuscendo a capire quando fermarsi. Il tirare la corda diventa negativo quando si continua ad insistere, ostinandosi per ottenere ciò che non si riuscirà mai ad ottenere. È il caso di Elizabeth, la quale non riesce a fermarsi e a vedere i limiti, continuando a danneggiare se stessa. Non si rende conto dei limiti e della volontà del padre, ma continua in un inutile perseverare che non porterà a niente. Le persone a volte non riescono a dare quello che uno desidera semplicemente perchè non hanno dentro di sè quel sentimento o quella capacità per realizzare la determinata cosa. Può risultare controproducente illudersi del contrario, correndo il rischio di esasperare la situazione o l’intero rapporto. Elizabeth non vede appunto questo, con un padre che non ammetterà i propri errori e non la riconoscerà mai. Finisce quindi per colludere con il padre, non riuscendo a denunciare lo stupro che subì anni prima. Il tirare della corda non deve sfociare in sfida o competizione tra le due parti, si corre il rischio di sfociare nell’idea che chi lasci la corda sia un perdente. Questa è una convinzione che può colpire il genitore, che per dimostrare la sua autorità, non cede mai.
Ciò che veramente uccide Elizabeth non è lo strangolamento in sè e per sè ma il non riconoscimento dell’esistenza della sua sofferenza e nella negazione dell’esperienza traumatica da parte del padre. Joseph infatti, per non infangare il mondo dell’esercito, invita la figlia a restare in silenzio e a dimenticare l’accaduto. Il non voler vedere ed evitare di elaborare il trauma risulta molto dannoso perchè compromette il funzionamento globale dell’individuo, non riconoscendone e soprattutto non rispettandone la sua sofferenza.